Streaming musicale: siamo ascoltatori passivi e “disinteressati”?

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COPERTINA

Siamo tutti d’accordo che con l’avvento di Internet e la diffusione dei servizi digitali, la nostra vita sia radicalmente cambiata. E in questo senso, è inutile negare che l’industria musicale sia stata uno dei settori che ha subito le maggiori trasformazioni da questa rivoluzione. I cambiamenti non hanno interessato solo produzione, distribuzione e promozione, ma anche il consumo. Ma come per ogni tecnologia di riproduzione musicale, le logiche di consumo e la partecipazione attiva dei consumatori hanno rappresentato un fattore chiave nell’innovazione. E nonostante negli ultimi anni, queste tecnologie vengano spesso introdotte da aziende esterne all’industria musicale, si adattano efficacemente alle esigenze degli utenti. Le possibilità di maggior controllo e personalizzazione, permesse dallo streaming musicale, hanno portato ad una diversa concezione del prodotto. Questa trasformazione ha sollevato una domanda cruciale: le piattaforme hanno reso l’ascoltatore più passivo e “disinteressato”?

Vittime dell’algoritmo

Uno degli aspetti più controversi delle piattaforme è la vastità del catalogo musicale. Se da un lato offre un’opportunità senza precedenti di scoprire nuovi artisti e generi, dall’altro ha portato a un fenomeno di sovraccarico cognitivo, e alla costante presenza di musica (musicalizzazione della società). Questi fenomeni hanno portato alla sopraffazione dal cosiddetto «fardello della scelta» o «tirannia della scelta», spingendo gli utenti a ricercare strumenti che facilitino l’orientamento nell’esperienza di ascolto. Per questo le piattaforme musicali hanno sviluppato una serie di tecnologie che riducono la complessità della scelta, con lo scopo di filtrare l’offerta musicale che oggi appare ingovernabile.

Questa offerta si presta alla critica di Adorno, che nel suo saggio del 1941 sulla Popular Music, sosteneva che l’ascoltatore obbedisce passivamente agli standard e ai formati ripetitivi della musica industriale. Oggi vi è l’idea diffusa, soprattutto tra teorici e ascoltatori competenti, che gli utenti delle piattaforme di streaming siano prevalentemente ascoltatori distratti e passivi, dominati dagli algoritmi e sedotti dalle ultime novità discografiche. Viene inoltre ritenuto che la maggior parte degli utenti rientri nella categoria dei lean back listeners, cioè ascoltatori poco attivi, non interessati a esplorare nuova musica o a dedicare tempo ed energie a questo scopo. Nell’industria musicale è spesso radicata la convinzione che la crescita del settore dipenda proprio da questi, i quali richiedono un’esperienza musicale “facilitata”.

Nell’attuale ecosistema delle piattaforme musicali è emerso un nuovo stile di fruizione, definito ascolto conversivo: un flusso musicale personalizzato, fluido e adattabile alle preferenze immediate degli utenti. Tuttavia, questa personalizzazione è spesso orientata da logiche commerciali, anziché culturali, e si basa su un sistema di aspettative emotive costruito algoritmicamente a partire dai dati dell’utente. In questo contesto, le piattaforme tendono a favorire un’esperienza musicale prevedibile, intercambiabile e volta al massimo coinvolgimento, piuttosto che alla diversificazione. È quindi evidente una standardizzazione dei gusti musicali secondo logiche commerciali e editoriali, in cui gli utenti spesso si ritrovano in un ciclo ripetitivo di ascolto, in cui vengono proposti principalmente generi e artisti già noti, rendendo difficile l’esplorazione di nuovi orizzonti musicali.

Gli ascoltatori più competenti e consapevoli percepiscono i limiti di questo approccio. Spesso criticano le piattaforme per la loro incapacità di interpretare gusti più complessi o divergenti rispetto a quelli degli utenti occasionali. Gli algoritmi di raccomandazione, infatti, sono percepiti come meccanismi che trattano tutti gli ascoltatori allo stesso modo, senza considerare le sfumature qualitative o stilistiche delle preferenze musicali. In particolare, questi utenti ritengono che le piattaforme privilegino i gusti più mainstream e gli artisti già legittimati dal grande pubblico, penalizzando chi cerca un’esperienza musicale più variegata e meno convenzionale.

Musica “d’accompagnamento”

Un altro effetto collaterale dell’era dello streaming è la perdita del rituale legato all’ascolto, che in passato rappresentava una vera e propria esperienza immersiva. Questo cambiamento ha portato a delle conseguenze importanti: l’ascolto è diventato un’attività spesso distaccata e meno intensa dal punto di vista emozionale. La musica, che in passato richiedeva un ascolto più attivo, è ora spesso relegata a semplice sottofondo di altre attività quotidiane, rendendo l’esperienza musicale più distratta e frammentaria. Questa tendenza non è soltanto il risultato delle piattaforme di streaming, ma riflette anche un cambiamento nell’approccio degli utenti stessi, che hanno iniziato a consumare musica in modo più compulsivo e frammentato.

Molti utenti, inoltre, dichiarano di consumare musica in modo frenetico e sbrigativo, spesso saltando rapidamente da un brano all’altro, ascoltando solo pochi secondi prima di passare alla traccia successiva. Questo comportamento è noto come skim listening. Lo skip rate, ossia la frequenza con cui gli utenti saltano un brano, è infatti un indicatore fondamentale non solo per la profilazione dei gusti musicali, ma anche per determinare i diritti economici. Tuttavia, alcuni sviluppatori di Spotify sottolineano che questo comportamento non è necessariamente sintomo di un ascolto superficiale, ma può piuttosto riflettere un maggiore coinvolgimento degli utenti nei processi di selezione e organizzazione della propria musica preferita.

Smaterializzazione e democraticizzazione

Un’altra delle trasformazioni più significative è il processo di smaterializzazione della musica, un cambiamento che ha modificato radicalmente il rapporto tra gli ascoltatori e i contenuti musicali. Uno degli aspetti più rilevanti riguarda l’idea legata al possesso: se prima la musica registrata era parte integrante della memoria personale e collettiva di una generazione, rappresentando non solo un’esperienza estetica ma anche un supporto tangibile legato ai ricordi, la smaterializzazione ha indebolito questo ruolo. Senza la fisicità di un oggetto da conservare, il valore simbolico della collezione musicale sembra sfumare, e con esso l’associazione della musica a momenti personali e culturali specifici.

Tuttavia, ha comportato che l’esperienza d’ascolto fosse più libera da una serie di costrizioni materiali ed economiche. Da un lato, l’eliminazione di oggetti fisici ha reso la musica più accessibile: non è più necessario possedere supporti ingombranti, difficili da conservare, soggetti a danneggiamento o perdita. Dall’altro lato, l’ascolto musicale si è distaccato ulteriormente dalla necessità di un investimento economico significativo. Si parla di democraticizzazione della musica. Oggi, un ascoltatore può esplorare brani provenienti da ogni angolo del mondo, ampliando i propri orizzonti culturali. Inoltre, le playlist curate – sia da esperti sia dagli stessi utenti – e le sezioni dedicate alla scoperta di nuovi artisti rappresentano strumenti che stimolano l’interesse attivo. Molti utenti utilizzano queste funzionalità per approfondire la propria conoscenza musicale, dimostrando che l’ascolto consapevole non è scomparso del tutto.

In definitiva, non sono le piattaforme in sé a rendere l’ascoltatore passivo o disinteressato, ma il modo in cui si sceglie di utilizzarle. Se ci lasciamo guidare esclusivamente dagli algoritmi, il rischio di un consumo musicale superficiale aumenta. Tuttavia, se utilizziamo queste tecnologie come strumenti per esplorare e approfondire, questo comporta un arricchimento della conoscenza musicale. Essere ascoltatori attivi o passivi, dunque, dipende dalla nostra capacità di approcciarci alla musica con curiosità e consapevolezza, trovando un equilibrio tra la comodità dell’automazione e il piacere della scoperta.

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