Reduci dall’ultima data della band in quel di Rock In Roma, non riusciamo a toglierci dalla bocca la sete che ci ha lasciato. Le aspettative erano alte, d’altronde hanno da poco annunciato l’uscita di un nuovo docufilm This search for meaning i cui temi “la toccheranno pianissimo” proprio come piace a Brian Molko, che ci ha abituati bene con la sua attenzione al sociale e discorsi politicamente schierati che, come ben sappiamo, lo hanno fatto correre incontro a un bel caso giudiziario con la nostra Giorgia-donna-madre-cristiana.

Come è ormai consueto ai loro concerti, un messaggio registrato con la voce del cantante e riportato sui ledwall (senza alcuna traduzione in lingua) ci chiede caldamente di non riprendere e non fare foto, di trascorrere il nostro tempo nel presente perché questa esperienza è unica e non si ripeterà e di rispettare le persone intorno a noi non imponendo loro di assistere alla performance attraverso lo schermo del nostro telefono. Un messaggio condivisibile, specialmente in un’epoca in cui quello del “telefono al cielo” è diventato un morbo che infetta ogni live performance, anche di genere teatrale (e qualche genio tira fuori il telefono pure al cinema). Ma nemmeno scriverlo in gigantografia ha effetto sui più temerari, che per vincere un video in più da tenere in galleria a fare muffa, danno il via ad una danza clandestina di telefoni accennati, a cui durante tutto il concerto, energumeni armati di torcia daranno una caccia sfrenata. Il risultato è che a “distrazione” ci abbiamo guadagnato tutti, e alcuni hanno pure preso qualche dito medio e qualche aspro ammiccamento da Brian Molko.

Purtroppo, quelle verso il pubblico sono state le uniche frecciatine che il cantante ha riservato durante la data, nonostante l’apertura in stile Molko dopo il primo brano Taste In Men avrebbe potuto farci ben sperare di interagire col frontman che abbiamo imparato ad amare.

Brian Molko sceglie di presentarsi così:

We are Placebo and we are a european band… someone may not like it.

Siamo i Placebo e siamo una band europea, qualcuno potrebbe avere da ridire.

– Brian Molko, Rock In Roma 2024

ma le cose restano ferme là e i Placebo che ci vengono offerti sono dei Placebo imbavagliati che suonano una musica al guinzaglio. Verrà forse dai “piani alti”, la motivazione che ha fatto salire sul palco un duo (più live band sistemata sullo sfondo) di impiegati della musica venuti a timbrare il cartellino? Perché il muro di ghiaccio non si vedeva, ma il freddo lo abbiamo sentito tutti: Olsdal ci prova, ma a Molko qualcosa gira male.

La scaletta finalmente riesce a coprire trenta lune di carriera della band: ci sono gli anni ’90 dell’omonimo Placebo, di Without You I’m Nothing e Black Market Music, c’è un pelo di primi duemila con Sleeping With Ghosts e Meds e non mancano all’appello Battle For The Sun e Loud Like Love. Su carta, il concerto della vita per qualsiasi fan della loro musica, no? No, perché nella scaletta sembrano aver messo un impegno chirurgico per schivare qualsiasi possibilità di un sano momento-fomento per il pubblico, quella parentesi di colpo al cuore che in un live apparentemente intenzionato a raccontare lo sviluppo artistico della band, avrebbe soddisfatto e sfogato le nostalgie dei fedelissimi. Torna Every you, every me, apprezzato l’inserimento di Soulmates, abbiamo The Bitter End e Song To Say Goodbay, non manca mai Slave To The Wage, c’è un’inaspettata Nancy Boy e le prevedibili For What Is Worth e Too Many Friends. Mancano all’appello: Pure Morning, entrambe le Special (- Needs e– K), The Bitter End, Meds, Battle For The Sun e chi più ne ha più ne metta. C’è di tutto un po’, di tutto troppo poco e la sensazione è quella di volare su un aereo che non decolla.

Si potrebbe continuare questo giochino della “setlist ideale” per un tempo interminabile e stare ad elencare non i titoli delle canzoni in scaletta a paragone di ipotetiche alternative migliori (scadendo nel soggettivo), ma il numero di “quella non l’hanno fatta?!” e musi basiti che si contavano tornando verso i parcheggi dopo un’ora di live e Il problema alla base resterebbe sempre e comunque uno solo: non conta quello che fai, conta specialmente come lo fai. Un live non è una playlist, che nel caso di Rock In Roma suonerebbe anche meglio, ma è un momento di catarsi e sinergia tra chi la musica la sta costruendo con mani da artigiano e chi è in piedi sotto al palco per essere testimone di quella nascita. Da una band come i Placebo, non ci si aspettano di sicuro caldi abbracci, ma un rispetto e una cura nei confronti delle performance dal vivo, sì. Un rispetto nei confronti delle persone che resistono dopo trent’anni, provando a strutturare per loro il concerto che un gruppo con uno storico così ricco può permettersi (e si merita), sì.

Prima di fare una critica è necessario considerare più punti di vista, porsi delle domande e cercare delle motivazioni, riflettere sui dettagli. Purtroppo, nessuna delle ipotesi che vengono in mente giustifica un live in cui a rimetterci è il fruitore, che siano tutti o uno solo.

Mettiamo sul lato il caso specifico della data “Placebo – Rock In Roma” che può essere stata condizionata da fattori politici, legali, organizzativi o da piedi sbagliati con cui si è scesi dal letto la mattina. Scavalchiamo la poca energia, la superficialità o qualche dito medio e coinvolgiamo nella riflessione casi ben più gravi (esempi recenti e nostrani: Sfera Ebbasta, Noyz e Salmo, Morgan). Che tu abbia un mese o trent’anni di esperienza devi salire su un palco perché hai qualcosa da dire, e ricordarti che se c’è ancora qualcuno che vuole starti a sentire devi esserne grato. In caso contrario, forse, prova a chiederti perché e per chi lo fai (“per le bollette” va bene lo stesso come risposta, l’onestà è apprezzabile). Ricordiamoci che, salvo casi eclatanti di mancanze di rispetto o palesi dimostrazioni di ignoranza, quello è il tuo pubblico e (a parte essere un riflesso di ciò che offri, quindi anche qui un punto interrogativo metticelo) è la ragione per cui hai cibo nel frigorifero (e non solo). Un pubblico che viene dato per scontato diventerà un pubblico disamorato, un pubblico insultato o deriso diventerà un pubblico ferito. Una piccola cerchia ottusa continuerà a difenderti confondendo la maleducazione per genuinità e “coraggio di parlare”, portando come prova del tuo buon cuore un TikTok di scuse a posteriori o un “ma dai sali sul palco” appena sentita la puzza del merdone che hai pestato – ma tu verrai fuori per quello che sei.

I Placebo, invece, semplicemente non sono venuti fuori.

Non c’è un fucile alla tempia che vi obbliga a suonare dal vivo, quindi provate a ricordarvi quel valore umano meraviglioso che c’è nella connessione emotiva tra simili e dissimili che solo l’arte sa regalare.

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