Il ruggito di Coca Puma conquista il MONK

È un tardo pomeriggio domenicale che già strizza l’occhio alla primavera, quello che accoglie nel suo ritorno a casa Costanza, in arte Coca Puma, classe 1998. Il suo album Panorama Olivia ha conquistato critica e vaste fasce di pubblico, rendendo poco a poco il successivo club tour “interminabile”, come lei stessa ha ammesso dal palco, ringraziando DNA Concerti che lo cura.
Lo dice con un sorriso largo, di chi è provato dal lungo tour ma si porta addosso ancora il sapore della novità, del successo, il gusto inatteso regalato dal riscontro eccezionale di un pubblico clamorosamente cresciuto: tornare a Roma, la sua Roma, la emoziona molto. E lo riconosce dal palco a inizio concerto, con la voce sottile e quasi rotta alla vista della sala gremita.
Coca Puma non piace semplicemente agli amanti delle sonorità raffinate nu jazz, o ai feticisti del soul intimista. Puma è l’uno e l’altro, Yin e Yang, dolcezza e aggressività, ricercatezza e pop. Poi, forse soprattutto, in vari momenti si balla eccome: le curatissime sonorità elettroniche dal sapore moog agganciano e coinvolgono un pubblico vasto, da chi ama la sperimentazione elettronica, la ricercatezza, a chi cerca una serata più canonica, per ballare su un bel groove e dal sapore da vero clubbing; per questi ultimi stride solo l’orario. Il concerto infatti va in scena presto nella storica cornice del MONK, appena dopo le 20:00, in questa nuova formula d’importazione nordeuropea che sembra essere graditissima, specie di weekend e in particolare agli over 30.
Un’ora di show intenso, variegato, quasi schizofrenico nelle brusche escursioni dinamiche della sua scaletta, che viaggia tra chitarre aggressive e sfumature progressive, a momenti intimisti in cui il brusio quasi disturba i sussurri di Coca, che dal palco racconta di sé e della sua musica.
C’è chi in lei rivede una versione colta di Billie Eilish o Myss Keta, chi rivede più l’influenza degli Hiatus Kaiyote, Youssef Dayes o Kamasi Washington, ma la grandezza dell’artista – divenuta ormai assieme a Marco Castello e pochi altri protagonista della scena nu jazz italiana – risiede proprio in questo: ci puoi sentire talmente tante influenze che alla fine è davvero solo se stessa, arte interiorizzata, ascolti radicati nell’anima di chi ha molto da raccontare.
Qualità dell’audio in sala ottima, sound splendido, grande lavoro di fonia e grandissimo quartetto sul palco, con Davide Fabrizio alla batteria, Stefano Rossi al basso e Antonio Falanga alla chitarra elettrica. I tre, oltre ad accompagnare egregiamente la band leader, si rendono protagonisti con tappeti sonori strepitosi e pattern incalzanti, in una travolgente gamma di suoni curatissimi, non senza alcuni elementi di psichedelia.
Il quartetto si esalta in una performance che scalda davvero molto il pubblico, anche su brani che in senso teorico non dovrebbero indurre che sentimenti sottili. E invece c’è il fuoco nel Monk, tutto sold out per un’artista che sta contribuendo a ridisegnare il perimetro della musica italiana contemporanea, e che – siamo certi – avrebbe grande riscontro anche all’estero, dove c’è un pubblico certamente più vasto e avvezzo a questo tipo di sonorità.
Corre veloce il ruggito di Puma: il tour è agli sgoccioli, ma ormai le aspettative del pubblico sono altissime! A quando l’Umbria Jazz?