Il nuovo album di Marco Russo: anche le Mosche sanno pungere

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Marco Russo Mosche

È uscito il nuovo lavoro di Marco Russo, si chiama Mosche: album nuovo nuovo, datato 17 gennaio 2025 dell’ artista eclettico, cantautore atipico, che dimostra con questo lavoro di avere davvero tanto, tanto da dire. Il caos dell’interminabile alveare dell’Urbe romana, la poesia di Napoli, le radici del suo Sud: in questo disco sembra manifestarsi l’urgenza di essere, di esprimersi e di ritrovarsi nel divenire dell’esistenza. Mosche, animali testardi e disdegnati, sfuggenti eppure onnipresenti. La curiosità ha prevalso, e noi di Nemo abbiamo fatto qualche domanda all’artista.

Marco Russo, romano d’adozione, catanzarese di nascita. Hai dichiarato che questo album è stato una necessità. Hai definito questo lavoro un elogio del Caos, della bellezza che resiste oltre l’oppressione e il grigiore di questi tempi. Sei un tipo metodico, ordinato – nella vita come nella creazione artistica- o fai dell’abbracciare il Caos anche la strada per arrivare in fondo ai tuoi brani? Quale tuo lato prevale, quando scrivi?

Direi che il caos è una parte fondamentale del mio processo creativo, ma non nel senso di un disordine casuale: piuttosto, è un caos controllato, un’energia che mi spinge a lasciarmi andare e a esplorare territori nuovi. Non sono metodico nel senso classico del termine, non pianifico tutto in anticipo, ma mi affido al flusso delle emozioni e delle idee. È come costruire qualcosa in mezzo al vento: devi assecondarlo, ma anche trovare la stabilità per non farti travolgere. 

Quando scrivo, è il mio lato più istintivo a prevalere. Mi lascio guidare dalle sensazioni del momento, dal bisogno di tradurre in musica quello che provo o osservo. Però, una volta che quel flusso si è manifestato, entra in gioco il lato più razionale: rifinisco, rileggo, riarrangio. In questo senso, abbracciare il caos non è solo uno stile di vita, ma anche il metodo per arrivare a qualcosa di autentico, che parli davvero di me e del mondo che mi circonda. È un equilibrio sottile, ma necessario, perché credo che la bellezza nasca proprio dall’incontro tra questi due poli.

Si sente dalle primissime note che è un disco che esce per un’urgenza interiore. Pur nell’alveo del pop sembra davvero non strizzare l’occhio ai cliché e manifestare uno sguardo ironico sulla realtà. C’è ancora lo spazio, secondo te, per fare esercizio critico nell’arte, al fianco della semplicità e della comprensibilità?

Credo che l’arte debba sempre lasciare spazio all’esercizio critico, anche quando si muove nell’alveo del pop o di generi più accessibili. La semplicità e la comprensibilità non sono nemiche della profondità; al contrario, saper comunicare concetti complessi o uno sguardo critico in modo diretto e universale è una sfida affascinante.

Con Mosche, ho cercato di fare proprio questo: affrontare temi importanti e personali, ma in modo che potessero arrivare a tutti senza perdere autenticità. L’ironia è uno strumento che uso spesso, e ho imparato ad apprezzarla e a coltivarla vivendo sei anni vicino Napoli. Quella città ha un modo unico di guardare il mondo, di mescolare poesia e ironia per raccontare anche le difficoltà più grandi senza appesantire.

Un verso come “Anche le pulci hanno la tosse” ne è un esempio: è immediato e semplice, ma porta con sé una riflessione profonda su una società dove tutti si lamentano, ma pochi fanno davvero qualcosa per cambiare. Per me, l’arte deve saper accendere riflessioni e toccare corde profonde, restando però sempre vera e vicina a chi la ascolta.

Ascoltando il tuo stile e il tuo timbro vocale vengono in mente artisti come Fulminacci e Daniele Silvestri, pur con delle note più vicine al soul. Quali sono state le tue principali influenze?

Le mie influenze sono davvero tante e varie: sono cresciuto a pane e Pino Daniele, che ha sempre rappresentato per me un punto di riferimento unico per la profondità e la poesia della sua musica. Poi c’è Neffa, che ammiro tantissimo per la capacità di unire il rap e il soul con una sensibilità unica. Ascolto molto hip-hop, soprattutto quello americano degli anni ’80 e ’90, che mi ha dato il gusto per il ritmo e il flow. E poi c’è il funk: James Brown è un’icona assoluta per me, tanto che ho il suo volto tatuato sul braccio. Il groove e l’energia che il funk trasmette sono imprescindibili nella mia musica.

Nel disco si sentono tutte queste influenze, ma anche molte contaminazioni dovute alla collaborazione con diversi musicisti. Le note di Luigi Lonetto e Max Goderecci aggiungono tanto colore funk; Mario Russo ha scritto degli archi che portano una sfumatura classica ai brani; poi c’è Via Da Me, che ha un beat afro prodotto da Mattia Avello. Ovviamente, c’è anche il cantautorato che è parte integrante di quello che sono e che aggiunge la mia firma personale ad ogni traccia.

Questo mix di generi e collaborazioni è ciò che rende Mosche così vario e, allo stesso tempo, autentico. Ogni elemento contribuisce a creare qualcosa di unico, ma sempre in linea con ciò che voglio comunicare.

Spazi dal rap al pop, con influenze funk ma indossando le vesti di chi è imbevuto di grande cantautorato. Prevale l’autore? Parti dai testi, o dalla musica, in fase compositiva? 

Non c’è una regola precisa da dove parto quando creo. A volte comincio con una melodia, altre volte da una frase o un’immagine che mi colpisce. Ma cerco sempre di non forzare il processo. Quando scrivo, lascio che ciò che ho dentro si evolva da sé, sui fogli e sulla musica. Ho capito che non devo pensare troppo a quello che sto facendo in quel momento, la creazione è un flusso spontaneo, quasi istintivo.

Solo alla fine, quando rileggo o riascolto, capisco di cosa sto parlando. Spesso sono situazioni che ho vissuto in passato, cose che ho visto o sentito. Frammenti di vita raccolti per strada, altre volte, invece, è il mio inconscio che parla e mi racconta come sto veramente dentro, anche cose che magari non avevo ancora messo a fuoco. In questo processo, non prevale mai un lato solo, né l’autore né il musicista. Il testo e la musica crescono insieme, si influenzano a vicenda, e questo dà autenticità al risultato finale. Per me, è importante che tutto nasca in modo naturale, senza seguire schemi rigidi, perché è così che riesco a essere davvero sincero nella mia arte.

Se dovessi dare un motivo su tutti per ascoltare il tuo disco, quale ti sembrerebbe il più convincente? Sei soddisfatto del lavoro, e che progetti hai – musicali e non – per il futuro?

Se dovessi dare un motivo per ascoltare Mosche, direi che è un disco che non cerca di piacere a tutti, ma che parla a chi ha voglia di sentire qualcosa di vero. È un lavoro sincero, che mescola introspezione, critica sociale e voglia di non prendersi mai troppo sul serio. È un invito a guardare il caos della vita, a trovarci dentro qualcosa di bello e a riscoprire l’autenticità.

Sono molto soddisfatto del risultato, perché sento che mi rappresenta al 100%. Ogni brano racconta un pezzo di me e delle mie esperienze, ma lo fa con un linguaggio che può arrivare a tutti.

Per il futuro, adesso voglio godermi il momento e divertirmi nei live, voglio far cantare e far ballare le persone che mi ascoltano, condividere con loro l’energia e le emozioni di questo disco. Allo stesso tempo, ho già qualche altro pezzo pronto, che pubblicherò in un futuro non troppo lontano, e in testa ho mille idee per il prossimo album.

Con la mia etichetta discografica, MZK, ho la fortuna di avere una squadra che mi dà piena fiducia e mi lascia un foglio bianco su cui scrivere. Questa libertà creativa è preziosa, ed è ciò che mi permette di continuare a sperimentare e crescere, sempre con la voglia di dire qualcosa che valga la pena ascoltare.

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