Buona festa della musica un cazzo
Il vittimismo è uno sport preferito da molti, e oggi, in una giornata che dovrebbe celebrare la musica, riflettiamo su come il potere ha influenzato il settore musicale. Dalla crisi pandemica alla mancata riforma del settore, lo Stato non ha ascoltato veramente gli operatori dello spettacolo. Artisti come Sangiovanni hanno rinviato progetti a causa della salute mentale. La musica, ora più che mai, mostra le sue fragilità, e spesso i musicisti soffrono. Celebriamo anche chi lotta per la libertà d’espressione, come Toomaj Salhei, imprigionato in Iran per le sue canzoni. Buona festa della musica, un cazzo.
Il vittimismo piagnone è lo sport preferito da molti. In un giorno così speciale, o meglio, come dovrebbe essere, ci troviamo a riflettere se lavarsi in una palude di escrementi sia piacevole o meno. D’altronde se pure Shrek lo faceva…
Intanto: buona festa della musica un cazzo.
Nella storia della musica il rapporto impari tra classi dominanti e subalterne, specie quando le prime dominano in forma non democratica, è di certo una questione di potere.
Il potere di decidere come produrre la musica, come diffonderla, come preservarla; e ancora, il potere di decidere sui musicisti, sui quali puntare, negare o vietare.
Un rapporto che negli ultimi tempi è divenuto un divario tra chi la musica la produce e chi l’ascolta.
Dal 2019 al 2020 c’è stata una perdita del 21% dei lavoratori dello spettacolo e se pensiamo che la colpa sia della crisi pandemica abbiamo ragione ma solo in parte.
Lo Stato, e quella parte di esso attualmente collocata nello scantinato con la targhetta Cultura, sembrerebbe essere stata interessata al confronto con gli operatori sulla riforma del settore. Ci si aspettava una riforma coraggiosa, perché l’occasione di correggere davvero tutti quei vuoti che resero così fragile e vulnerabile il settore dello spettacolo durante la pandemia fu un fatto clamoroso a livello storico. Oggi diventato archeologico.
Il ministero ha sempre incontrato i delegati degli operatori dello spettacolo per poter dire di lavorare con loro, ma non li ha mai davvero ascoltati.
Dunque, chiedersi se Santa Cecilia, la protettrice della musica abbia preso un grande abbaglio o se semplicemente persa nei virtuosismi alla lira si sia dimenticata di dirci che ancora è con noi, è lecito.
Il 15 febbraio di quest’anno Sangiovanni decise di rinviare l’uscita del proprio disco e la data al Forum di Assago per problemi di salute mentale. Una salute mentale intaccata dal produrre e dal performare senza aver realmente qualcosa da comunicare o esprimere.
Ma che il mondo discografico abbia del marcio all’interno è ormai cosa nota. Lo era già quando i neri d’Africa, insomma quelli che parteciparono a quel piccolo cambiamento di rotta chiamato Blues vennero spremuti dalle case discografiche fino all’osso per poi essere abbandonati nelle tendopoli.
La verità è che dovremmo iniziare a capire che il suono e la musica non servono a riempire il vuoto e che la nostra parte interiore è in grado di sopportare benissimo anche il silenzio.
La musica nell’ultimo decennio sta vestendo i panni peggiori per un appannaggio, piuttosto ridicolo, della sua funzione di migliorare lo stare al mondo delle persone.
Biglietti dei concerti alle stelle, monopolio dello star system, attenzione alle hit parade, potrebbero essere altri argomenti da sviluppare ma oggi presentiamo pubbliche lamentele o spunti di riflessione che non avranno una risposta. Semplicemente problematizziamo i tasselli che hanno fatto si che la colonizzazione musicale e culturale abbia intaccato la società di oggi.
Dopotutto, però, possiamo considerarci anche fortunati dato che in alcune parti del mondo la musica fatica a vivere e sopravvivere, trovando in alcuni casi uno spiraglio nei luoghi altri, in quelli non deputati, in forme di diffusione non istituzionali, non ufficiali.
Spesso faticano a vivere anche i musicisti. Nella giornata di oggi gli Eugenio in Via di Gioia hanno deciso di dedicare la festa della musica al rapper iraniano Toomaj Salhei, imprigionato, torturato e condannato a morte per aver espresso pubblicamente attraverso la musica la violenza dello stato iraniano.
Non è un caso isolato, basti pensare ai musicisti curdi, alla storia del Grup Yorum, band turca accusata di terrorismo con trenta membri all’attivo di cui venti in prigione.
Yahaya Sharif-Aminu, abitante dello stato di Kano in Nigeria si trova dietro le sbarre in attesa di una probabile condanna a morte con l’accusa di blasfemia, dopo aver diffuso una sua canzone tramite Whatsapp.
I nodi da sciogliere intorno al questione Musica e Potere e Musica è potere sono davvero infiniti e non bastano settecento caratteri neanche per presentarli.
Insomma, buona NON festa della musica.