Don’t take these beautiful things that I’ve got! Please, stay, I want you, I need you oh god!”… “Smooth operator… smooooooth operato-oor…” Dei motivetti elementari riecheggiano nella nostra testa, orecchiabili e rassicuranti. Sentiti -non ascoltati- distrattamente dentro le storie dei nostri amici su instagram, su qualche video virale, o di sfuggita sui mezzi dal telefono d’un passeggero scortese, reo di non usare auricolari. Si deve restare impressi in pochi secondi, lo sguardo su di sé dura pochi istanti. Bisogna assecondare il declino dell’attenzione o niente, pena l’oblio. A questo impero dell’effimero si sta piegando tutta l’industria musicale. Quanto è difficile essere artisti, essere autentici e creativi, nell’era della distrazione permanente?

Tempi creativi, tempi duri

Nell’epoca del tramonto dell’occidente, in cui sembra tornare però la storia e scompare dall’orizzonte un destino segnato, florido e pacifico per l’umanità, l’arte arranca inesorabile. I suoi tempi creativi, lo spazio di riflessione, d’elaborazione, attesa e compimento, sono colpevolmente lunghi; in un mondo che ci ha educati ad essere perennemente produttivi, up to date e lanciati ininterrottamente in qualche business. L’arte costa troppo tempo, oltre che il coraggio di guardare dentro se stessi. Gli smartphone e le serie TV riducono persino il tempo del nostro sonno, ultimo rifugio della psiche, nonché ultimo fortino da assaltare prima dell’uomo macchina; e l’abuso sistematico di schermi ci rende impazienti, ansiosi, bisognosi di conferme per via digitale, visto che l’attenzione degli altri nella vita reale sembra sparire, e nemmeno importare più. 

Paura del cambiamento

Ecco, raccontata così la nostra epoca sembra una distopia. E dubito che chi non sia nativo digitale non avverta -come me, millennial- un frequente disagio nel vedersi dentro questi meccanismi, come ad esempio parlare appassionatamente davanti al proprio telefono alla ricerca di qualche like che scardini la noia, buchi la mediocrità e faccia impazzire l’algoritmo. Per dirla con Pascoli, c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico: i detrattori della modernità sono sempre esistiti. Ogni progresso è visto come minaccia quante più rughe si indossano, perché la novità ci spaventa. Ci impedisce di sclerotizzarci verso la vecchiaia, e nel costringerci a stare al passo, minaccia di lasciarci indietro e tagliarci fuori. Il progresso tecnico quasi ci colpevolizza di non correre. 

Modernità liquida

Oggi però forse -ed è quanto mai opportuno essere dubitativi- qualche elemento oggettivo per scuotere la testa c’è. Modernità o deriva? Progresso o decadenza? “Contro il logorio della vita moderna” recitava un vecchio spot. O forse per l’angoscia di quella post-moderna. Per certo la liquefazione di cui parlava Bauman è in corso: abbiamo sempre meno appigli, certezze, totem simbolici e muri fisici a cui aggrapparci quanto sentiamo di cadere. La società è disciolta in un calderone, e nell’epoca d’oro dell’individualismo, un alone di solitudine si inspessisce dentro le nostre anime. E tutto questo nel piccolo, nel nostro quotidiano, in cui però il vivi nascostamente di epicurea memoria è svanito, perché chiunque in pochi clic ti può puntare uno smartphone in faccia e sei in mondovisione. Il Caos s’accresce in una spirale di brusii, in cui riecheggiano le gioie ostentate dei successi altrui: per tanti è stress che si tramuta in ansia, smarrimento e a volte alienazione. La sensazione di non farcela. Senza scomodare collasso climatico, guerre nucleari e salute delle nostre democrazie. 

Egemonia social

Se il mondo trema e talora piange, la musica per fortuna non si ferma, ma di certo non ride. La potenza dei social ha modificato tutta l’industria dell’intrattenimento, del tempo libero: il consumo culturale con le sue nuove forme come uno Tsunami è giunto, inaspettatamente, ad allagare le terre secche ben distanti dalla costa: fino a un attimo prima ti trovavi in un ambiente, e dopo un istante il paesaggio è mutato. La musica è cambiata.

La febbre degli influencers

Chi sono oggi i creativi, gli artisti? Un tempo erano quanto di più disparato e incatalogabile ci fosse: nulla li univa, se non la creatività come senso dell’esistenza. Oggi sembrano qualcosa di prodotto in serie, inscatolati ed etichettati come uscissero da una fabbrica di barattoli. Sono gli influencer, questa parolaccia normalizzata ed eretta indebitamente a mestiere, sebbene dal senso incerto e dalle tinte fosche. Perché? Perché sì: se misuriamo il successo di un creativo dal numero di utenti che cliccano sul proprio smartphone un apprezzamento o meno, saranno i decisori della piattaforma a determinare tramite l’algoritmo chi ha più chances di diventare virale. Come conciliare oggi il ruolo di creativo e dar sfogo all’immaginazione, con l’evidenza che inseguire i trend aumenta il proprio engagement e di fatto la possibilità di diventare più noti e proseguire nel mestiere?

Arte e consumo

Il dilemma esiste. E in questo cruccio a soffrire, prima degli artisti, è l’arte medesima. Chi non vuole fare la fame cambia mestiere e relega l’arte a cantuccio domestico del proprio dopolavoro. Oppure se si vuole tentare di restare sulla giostra, ci si attrezza, ci si appiattisce e ci si vende. Si asseconda la pancia della moltitudine, si ascoltano idee preconfezionate da produttori annoiati, si tenta di essere il clone di qualcosa che ha funzionato in passato, o nel migliore dei casi si scimmiottano mode d’oltreoceano di qualche anno prima. Niente di nuovo, è proprio il caso di dirlo. 

La profondità è superflua, ma la bellezza è coraggio

La cosa che più rattrista è l’aver rinunciato al sincero desiderio di conoscere il giudizio altrui sulla propria psiche, sulla propria interiorità offerta in forma artistica. L’arte -dicevano in molti in un’epoca più fortunata, di tante avanguardie e poche retroguardie- o è dirompente o non è. O si fa portatrice del nuovo, spiazza, emoziona, trafigge e segna l’immaginario oppure è mero esercizio di stile. Accademicismo e conservazione, elogio e legittimazione del già esistente. Roba buona per i tè dei salotti borghesi, che si ripetono sempre uguali. Inoltre, cosa forse ben più deflagrante, l’arte di oggi ha totalmente abdicato alla propria funzione pedagogica: nulla di istruttivo trova spazio dentro il vortice del mainstream. La creazione asseconda la massa perché è merce, e rinuncia ad insegnare qualcosa. Pulsionalità immediata, consumo, piacere senza stimolo intellettuale, perché tutto deve risultare rassicurante, già noto. E così ci sono sempre più panini del fast food e meno ricette della nonna, meno piatti gourmet. Anche nella musica. 

La vittoria della tecnica

La normalizzazione di questi processi è il tripudio di una società meccanica, tecnica, dove tutto è quantitativo anziché qualitativo. Bisogna massimizzare, non sorprendere. Ciò che vende vale, ciò che non vende non vale: In sostanza, stiamo tragicamente perdendo di vista il valore di tutto ciò che non ha un prezzo. E i nuovi artisti spesso ragionano così, sembra loro tutto normale. Non si preoccupano in alcun modo del destino della collettività, rimosso sgombrando il campo a beneficio del successo individuale. Un’idea di successo a sua volta preconfezionata, fatta di soldi e di effimero, di bulimie di consumo disparate. Fatta di ostentazione e di pacchianerie, in cui nessuna libertà umana si realizza fino in fondo. Perché anche la felicità dell’oggi è un prodotto dell’economia capitalista.

L’industria corre, l’arte insegue.

Per assecondare un pubblico sempre più distratto, annoiato e nervoso, che ascolta la musica sempre più per scappare dai propri silenzi che per l’autentica volontà di entrare in contatto con le proprie emozioni, servono brani brevi. Basta con questi intro lunghi, basta assoli, e basta code interminabili. E chi ha più tempo per le lunghe strofe dove si ha qualcosa da dire, qualche concetto da esprimere? Ritornelli, tre, massimo quattro. Versione radio da 2 minuti e15 secondi, massimo due minuti e mezzo, poche strofe, tantissime collaborazioni per provare a fare contenuti social con gli ospiti e fare impazzire il web. Il trionfo del già sentito, perché manca lo spazio per dirazzare, pena l’oblio e sonore pernacchie dalle case discografiche, che a loro volta il tema etico di dove stiano conducendo l’arte neppure se lo pongono. Ma perché, Monsanto si pone il problema di dove condurre il destino dell’agricoltura mondiale? Bayer si pone il tema della salute umana tra cento anni? Non credo. Ed ecco i ritornelli da 15’’ esatti, perché devono diventare orecchiabili nemmeno per chi ascolta la traccia per radio o su qualche piattaforma, ma per chi la intercetta per errore scrollando noiosamente dal proprio divano le storie altrui, facendo una scorpacciata di dopamina mentre si fa i fatti degli altri. A questo è ridotta oggi l’industria musicale, in un inseguimento grottesco della platea. Ma d’altra parte, “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.” Diceva Gramsci.

Il senso del tempo

Le quattro note di Gilmour su Shine on You Crazy Diamond sono celestiali e inquietanti, tensive e sublimi. Caratterizzano il brano come raramente 4 note hanno fatto nella storia della musica leggera, forse se la battono con le quattro che aprono la quinta di Beethoven. Ma non avrebbero mai avuto lo stesso impatto, non avrebbero mai costruito lo stesso immaginario potente, onirico e gigantesco senza i 3 minuti e 55’’ di intro che le precedono. Dunque, se questa “è la modernità, bellezza”, scordiamoci di ascoltare mai più nuovi capolavori simili. Oggi nei 3,55’ dell’intro di quel brano vediamo 5 balletti tik tok, 3 video di gatti, due ricette per la migliore carbocrema e un itinerario di viaggio di 40 secondi. Tutte cose che rapiscono la nostra attenzione, in un attimo la seducono e la violentano. Poi ci scaraventano in un nuova tabula rasa. Domani non ricorderemo nulla di ciò che abbiamo visto. La distrazione sta mangiando la nostra vita e la sta svuotando di senso. Disimpariamo la concentrazione, muore così ogni velleità d’apprendimento. Non c’è evoluzione, in una vita in cui ogni giorno dobbiamo reimparare da capo qualcosa che dimenticheremo la sera. Il mito di Sisifo applicato alla conoscenza e all’arte. Una tragedia greca, appunto.

La grande omologazione

Risultato? Ormai i creativi sono scienziatini di informatica, con qualche infarinatura di psicologia e comunicazione, magari con una spolverata d’istrionismo e una personalità leggermente fuori dalle righe. Qui tutto finisce, in un assordante silenzio di capacità critica, difformità e di respiro nuovo. Il narcisismo è precondizione per vivere a proprio agio tutto questo, probabilmente devastati da una smania egotica di successo, promosso da mezzo per diffondere la propria arte, per esprimersi, a unico fine. Inutile dire che tipo di personalità si raccolgano oggi, nello star system. Persone che di scuotere le coscienze non solo non hanno voglia, ma ne hanno persino paura: e se poi scendo dal piedistallo e mi spengono i riflettori, che farò? Perché esporsi? Solo per la futile ragione di essere sincero, davvero me stesso? Ma no! Meglio stare a bordo del carrozzone e diventare di plastica. Qui a bordo, vivo, mangio e sono qualcuno per gli altri. Se scendo, dovrei scoprire chi sono davvero, per giunta da solo. E forse senza soldi.

Otium? Tempo sprecato

Ormai dunque, per la creatività vera non solo non c’è più spazio nel mercato, non c’è economicità nel darle sfogo: soprattutto nascono sempre meno persone in grado di produrre qualcosa di autenticamente nuovo, e ancor meno persone in grado di osservarlo e apprezzarne il coraggio. Il tempo è la vera novità: è sparito. Dobbiamo raggiungere tutto subito, ogni cosa che faccia risparmiare tempo è automaticamente progresso e vantaggio, salvo non saper più cosa fare di ogni spazio improduttivo e pericolosamente sottratto al lavoro, alla monetizzazione, al sistema.

Quantità contro qualità

Poi, tragico quanto prevedibile, oggi è più facile diventare un influencer e poi trovare chi ti pubblica un disco, che non pubblicare un disco, fare successo e diventare una persona in grado di influenzare gli altri. Ma la triste anomalia, il trionfo della mediocrità di chi sa come hackerare l’opinione pubblica, più che colpirla, non è esclusiva del campo della musica. Anche le case editrici per i libri, e perfino l’industria del cinema guarda a chi ha più capacità spendibile nei social che talento. 

Si diceva che l’arte è un massaggio al muscolo della coscienza collettiva. Oggi sembra che mancando il senso del collettivo, la coscienza sia diventata un inutile fardello, retaggio di una morale scomparsa. Il mondo è quantitativo e non qualitativo, e la popolarità stravince sul prestigio. Ma come si diceva nel film Birdman, giust’appunto: “la popolarità è la cuginetta zoccola del prestigio”. Non avrei saputo dirlo meglio.

L’incapacità di aspettare

A proposito di creare: una gravidanza, massima espressione della capacità creatrice della specie umana, dura nove mesi, e non esistono riproduzioni a 1,5x che tengano. Fino al ventesimo secolo abbiamo appreso che quell’attesa regala nuovi orizzonti di senso alla vita dei genitori, e in particolare della donna che porta in grembo il bambino: anche se per l’individuo è un enorme fatica e un sacrificio, in cui si antepone il nascituro alle proprie esigenze individuali. In quel periodo, la donna, creatrice, veniva detta in dolce attesa. Al tempo della morte del tempo, chi più mai definirebbe un’attesa dolce?

Resistenza

Tuttavia, uno spiraglio di luce strenuamente resiste all’avanzare delle tenebre. La generazione dei ventenni attuali sembra aver mangiato la foglia, e sta abbandonando quest’epoca del disimpegno sociale che ha egemonizzato il campo almeno dagli anni ottanta. Lottano, combattono, spesso si esprimono a gran voce, e hanno perso quella reverenzialità che tanti di noi avevano da ragazzini. Non hanno paura di contraddire l’autorità, anche se al grave prezzo di qualche episodio davvero increscioso tra le mura scolastiche. Stanno finalmente uccidendo il padre, per la soddisfazione di Freud e del destino del genere umano. Così la politica e così l’arte: lontano dai radar, lontano dai riflettori degli stadi e le luci dei grandissimi palcoscenici mai così male utilizzati, c’è un proliferare vorticoso, un sottobosco di arte emergente straordinaria che meriterebbe ben altra ribalta. Qui su Nemosounds cerchiamo di raccontarvi ciò che osserviamo, dando a spazio a chi altrove non ne trova quanto meriterebbe.

L’homme révolté

Oggi autoprodursi un EP costa un decimo, forse un cinquantesimo di trent’anni fa. Non tutti i mali vengono (solo) per nuocere;  nello sgomento proprio dell’adolescenza, creare resta il miglior balsamo lenitivo per tanti, tra le sguaiate urla del mercato. Qualcosa resiste, nonostante tutto, come i fiori che a primavera sbocciano tra il marciapiede e il ciglio della strada marciapiede. I ribelli ci sono ancora. Chissà che un giorno riescano a sconfiggere l’impero, ormai totalmente passato al lato oscuro. 

(vuoi conoscere qualche emergente? Ascolta la nostra playlist di release!)

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