Tancredi Bin e la “Mappa di Ogni Corpo” che attraversa pensiero e sensazione
“Mappa di Ogni Corpo” è il nuovo disco di Tancredi Bin, in uscita a breve per Oyez!
Questo è un percorso nella percezione, una strada che sembra aver origine dal corpo ma che sfocia inevitabilmente nell’anima.
Abbiamo parlato con l’artista di cosa vuol dire davvero corpo, qual è il suo legame con la nostra percezione e di cosa significa invece il pensiero. Niente paura: tra queste riflessioni filosofiche c’è spazio anche per la musica e il processo creativo.
Per conoscere meglio questo artista e il suo lavoro potete dare un ascolto ad alcuni dei suoi brani di punta. Uno di questi è “Muta”, uscito il 14 giugno, che racconta la necessità di una trasformazione, di un cambio di pelle che diventa un’esigenza tanto del fisico quanto del mentale. Lo scambio continuo di percezioni e la transizione da corpo ad anima sono temi che vengono introdotti già in questo primo brano, ma che diventano espliciti nell’ultima traccia rilasciata dal cantautore bolognese, “Il Pensiero Come Scoria”, che esemplifica perfettamente quella che è una vera e propria tesi alla base di questo progetto musicale: “è così facile capire quanto sia futile il pensiero”.
Ma andiamo al sodo con il racconto di questo viaggio nel pensiero e nel corpo.
Parlaci di “Mappa di ogni corpo”: come nasce? Qual è l’esigenza creativa dietro di esso?
Il progetto nasce da premesse che sono in realtà fortemente materiali: sono anni che scrivo musica, io ho una formazione autodidatta da batterista, ma volevo mettere su un progetto musicale interamente realizzato da me. Inizialmente l’idea era di trovare qualcuno a cui far suonare le cose che scrivevo, ma alla fine ho capito che dovevo essere io a metterci la faccia.
In quel momento, inizio 2022, stavo scrivendo tutta un’altra cosa, ma mi sono reso conto che non riuscivo a tirare fuori dei suoni. Sono ripartito da capo, registrando delle demo in camera mia, e come unica vera regola mi sono posto questa: far uscire da quella camera delle demo estremamente dettagliate e quindi registrate, suonate e cantate da me.
C’era una vaga idea di come doveva suonare ma non era un’idea tanto musicale quanto più “visiva” o comunque derivante da fonti non prettamente musicali, non c’era un’idea di andare a fare qualcosa di un certo genere o prendendo ispirazione da questo o quell’altro artista, c’era la volontà di fare qualcosa che fosse quello che poi è uscito: un disco abbastanza “tangibile”, quasi.
Tangibile, infatti, perché parliamo della “Mappa di ogni corpo” e in effetti diversi pezzi fanno proprio riferimento al corpo, alla percezione, alla materia del nostro organismo. Quanto c’è di corpo e quanto di mente in questi pezzi e quanto si influenzano a vicenda?
È un’ottima domanda. Il corpo c’è e c’è anche la mente.
L’ipotesi da cui parte il disco è che il corpo stesso sia l’anima e il pensiero sia una specie di prodotto di scarto, è una conseguenza del vivere su un piano meno “terreno” del corpo. Le attività dell’anima, che sono anche le attività del corpo, generano come prodotto di scarto il pensiero. Questo concetto qua è venuto fuori da solo durante il processo creativo, come un po’ tutti i testi del disco. Non era stato pensato a tavolino, molto raramente ho deciso di dire delle cose precise, semplicemente sono venute fuori da sole.
Ovviamente questo disco l’ho fatto io e so di cosa parla, ma in realtà continuo a reinterpretarlo e l’interpretazione delle cose è cambiata molto nel corso del tempo.
Da dove viene l’idea che l’anima è il corpo? Come si evolve questo percorso di consapevolezza nel corso del disco?
Ci sono molti momenti in cui non capiamo esattamente cosa accade a noi e intorno a noi e la sensazione è l’unica cosa che sta avvenendo in quel momento, il pensiero arriva solo in un secondo momento. Questa serie di ragionamenti hanno suggerito poi la tesi che l’anima è il corpo. Il grosso del disco si compone proprio delle premesse che portano a questa conclusione, cioè che l’anima sia il corpo. E questa è una scoperta che quasi segue il metodo scientifico: c’è una prima intuizione di questa possibile natura del pensiero e nel corso soprattutto della prima metà del disco c’è quasi una ricerca che questo sia vero. Il percorso che si fa all’interno del disco è quello di cercare di confermare quest’intuizione che nasce all’inizio, con i primi brani.
All’ascolto si percepisce una grande coerenza tra i vari pezzi, un viaggio molto piacevole e rilassante, riflessivo, ma allo stesso tempo innovativo nei suoni, un’innovazione che in una certa misura ci appare in contrapposizione con buona parte della musica mainstream che viene proposta oggi. Credi che oggi sia difficile mantenere questa autenticità e conciliarla con l’esigenza (o comunque con il desiderio) di incontrare il supporto delle case discografiche?
Partiamo da questo: si può sempre mantenere un’autenticità.
La questione è: cosa si vuol fare con la musica? Se a un artista non interessa necessariamente procacciarsi pubblico o interessi discografici ha già risolto la questione.
Da un punto di vista di rapporto tra autenticità e possibilità discografiche, credo che in questo momento un po’ di spazio ci sia. Negli ultimi anni in Italia ci sono stati progetti estremamente autentici che hanno riscosso abbastanza successo. Questa è la dimostrazione che il pubblico viene decisamente sottovalutato. Si può tranquillamente promuovere della musica autentica ma fuori dalle logiche di mercato cercando di dare un po’ di fiducia al pubblico, ma purtroppo immagino che fare questa cosa non convenga sempre in un’ottica di rapporto rischio-beneficio per i discografici, però secondo me si può.
Allo stesso tempo dico che si può dare fiducia al pubblico che è molto sottovalutato, sì, ma bisogna anche impegnarsi da ascoltatori. C’è una citazione di un autore famoso che dice che c’è più bisogno di bravi lettori che di bravi scrittori: secondo me è così anche in musica.