Pete Doherty: «Avete qualcosa da dire sull’ascesa del populismo di destra?»
Se c’è una cosa che si nota nel nuovo album dei Libertines All quiet on the Eastern Esplanade è sicuramente l’impegno politico. Merry old England, ad esempio, è uno di quei pezzi che parla di immigrazione, di frontiere, della Brexit e, i Libertines, hanno deciso di raccontarlo attraverso il loro stile inconfondibile, sempre quello, sempre quella new wave Brit Pop a cui siamo tanto affezionati, la stessa wave che ha inondato anche l’America, grazie a band come gli Strokes e, infine, la stessa Wave che, il 1 luglio, ci ha fatto ribeccare tutti al Villa Ada Festival, con qualche anno in più e qualche capello in meno.
«Questo ormai viene definito “Dad Rock”» mi fa notare un mio amico che ha scelto, insieme a me, di buttarsi in questo mare di nostalgia canaglia alla quale non eravamo poi così tanto pronti psicologicamente. I Libertines li passavamo in radio, me lo ricordo ancora, in quel lasso di tempo che intercorreva tra il loro omonimo album del 2004 al 2015, quando si sono riuniti con Anthems for doomed youth. In quel lasso di tempo avevamo poco più di vent’anni, cercavamo la giubba rossa su Ebay, rapiti da quelle chitarre sporche e distorte, dalla voce di Pete Doherty che andava e veniva, dal microfono e dalla scena, a seconda di quanta roba avesse mischiato la sera prima. Era il periodo dei giornalisti del The Sun che andavano a caccia di rocker strafatti, perché forse era l’unica cosa che trovassero interessante, sicuramente per loro più interessante del fatto che sussisteva ancora una scena underground, figlia della working class, del Brit Pop, del Punk ’77 e figlia di quell’antica speranza verso Tony Blaire, una scena che valesse la pena raccontare. Poi la delusione e, il frutto di quella delusione, ce lo raccontano i Libertines in All quiet on the Eastern Esplanade, con una cover che, già di suo, è parecchio eloquente.
Peter Doherty si è ripulito, forse non troppo contenti i colleghi sensazionalistoni del The Sun. Ce lo raccontano i testi impegnati politicamente e ce lo racconta la loro performance sul palco del Villa Ada Festival, dove si sono esibiti in un piovoso lunedì di inizio estate, sicuramente un effetto speciale per farli sentire più a casa, visto che ha piovuto solo in quell’ora e mezza. Tuttavia, sotto un’english summer rain fastidiosissima, circa 1600 persone sono rimaste a commuoversi e, all’occorrenza a pogare, davanti quella band che per una sera ci ha riportati indietro di almeno 15 anni.
Sono letteralmente volati microfoni con tanto di aste verso il pubblico e qualcuno è riuscito ad accaparrarsi al volo anche l’armonica di Pete dopo averci chiuso Can’t stand me now. Momenti Rock’n’Roll che hanno creato non pochi problemi, considerando che il pezzo successivo al lancio dei microfoni non l’abbiamo sentito, quindi non saprei assolutamente dirvi di quale pezzo si trattasse. Vedevo solo le due bocche di Pete e Carl Barât che si scambiavano la saliva sullo stesso microfono, come spesso fanno (scelta consapevolmente sbagliata, visto e considerato che si trattava del microfono dei cori del basso). Ad ogni modo, a parte la canzone senza voce che, qualcuno più preparato di me avrà sicuramente riconosciuto, il live è stato bello e romantico quanto la serenata che Pete ha dedicato ad una ragazza nel giardino di Villa Ada durante il soundcheck nel pomeriggio. È questo quello che vogliamo ancora dalla musica e dallo spettacolo: una rockstar che non mette muri tra sé e il pubblico, un Keanu Reeves che prende la metropolitana e non sente il bisogno di difendersi. La libertà di parola, il messaggio politico nella leggerezza di un lunedì sera piovoso di inizio estate e, infine, la domanda di Pete Doherty che ci lascia riflettere: «Avete qualcosa da dire riguardo l’ascesa del populismo di destra?»