Sanremo è ancora un Sanremo maschilista?

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Impazzano le polemiche: è stata un’edizione maschilista?

Se la settimana di Sanremo è senza dubbio ancora oggi la settimana di Sanremo, la settimana che segue è quella delle polemiche, e degli strascichi di Sanremo. Poi viene il tempo delle riflessioni a freddo, quando la polvere è tornata a depositarsi restituendo limpidezza e definizione all’aria intorno a noi.

La classifica finale ha recitato, tonante: cinque uomini in top 5. Nessuna donna nelle prime posizioni.

In un’epoca di forte sensibilizzazione – fortunatamente – sulla questione femminile e sulle iniquità legate al genere, era scontato che questo esito avrebbe sortito commenti al vetriolo, speculazioni social, frecciate e caustiche discussioni.

Elodie si è schierata in prima linea, sottolineando che il clima sanremese è ancora oggi estremamente maschilista – è innegabile che, con rarissime eccezioni, la direzione artistica e la conduzione siano sempre state in mano a uomini – e volendo così spiegare l’assenza di donne in cima alla classifica finale. Giorgia le ha poi fatto eco.

Ma è davvero così? La potenza del patriarcato, nel 2025, si sprigiona in un contesto nazionalpopolare come il festival della canzone italiana, ai suoi massimi, escludendo il genere femminile dal podio?

Cominciamo col dire che la grande esclusa è stata Giorgia: molti ricordano la sua Di Sole e d’Azzurro del 2001, che però arrivò seconda dietro a un’altra grandissima artista femminile della canzone italiana, Elisa, che vinse con Luce.
Dunque non è vero a priori, ma un regresso forse tutto sommato è evidente nella parità di genere, sotto i riflettori di Sanremo. A detta di molti, la sua era la canzone migliore, non solo per esecuzione canora, ma anche per arrangiamento e qualità del brano: diversi notano analogie con grandi classici e brani del passato più recente, come Due Vite di Marco Mengoni che vinse nel 2023. Resta un pezzo ben scritto, e all’enunciazione del suo sesto posto l’intero Ariston è insorto, comprese polemiche vibranti e vistose da parte dell’orchestra. Ma forse il problema è più a monte, della mera classifica. Forse il patriarcato resiste in buona salute, a fronte dell’impegno civile di tante e tanti di noi, ma a un livello più profondo, sottocutaneo.

Sanremo, specchio di un’Italia retrograda?

L’Italia ultimamente sembra essere regredita culturalmente, e Sanremo ne è stato fedele specchio: la concentrazione in pochissimi autori di una moltitudine di brani ha reso l’offerta musicale inesorabilmente più omogenea, piatta, meno sorprendente. A prescindere dal genere, va detto.

C’è un però: con l’esclusione di Giorgia (non a caso la più penalizzata) la maggior parte dei brani portati a Sanremo dalle donne sembravano ripetere uno stanco mantra, portavano sul palco un modello femminile davvero stantio e stereotipato: brani con cassa dritta, ballabili, lanciate a Sanremo solo per fare da trampolino alla fatturazione sui diritti d’autore, sperando di indovinare un tormentone estivo. Brani oggettivamente poveri sul piano arrangiativo, in cui spesso i celestiali archi dell’orchestra sono costretti a eseguire le parti assegnate a sintetizzatori nelle versioni studio degli stessi pezzi. Brani che non valorizzano né l’orchestra, né Sanremo come palcoscenico, e sovente davvero poco significative nei messaggi veicolati nei testi.

Ribadiamo: il problema va oltre la questione di genere: è chiaro però che questo “impoverimento spirituale”, con l’orizzonte volto unicamente agli introiti, tenda a colpire più le donne. Nell’ipersessualizzazione delle donne infatti si manifesta tutto il maschilismo della società, come dovessero vivere solo per lo sguardo degli uomini. Perché si reiterano modelli che hanno funzionato in passato, in cui la donna è rigorosamente soubrette, e mai conduttrice, ed è cantante sì, ma soprattutto ballerina, bellissima e con le gambe rigorosamente scoperte.

Non abbiamo grossi dubbi che molte artiste al femminile di questo Sanremo 2025, come in alcune edizioni recenti, avrebbero saputo offrire molto di meglio, ma sono dovute a sottostare alle logiche violente del mercato discografico delle Major (spesso capeggiate da uomini). Quindi la critica non va a loro, va da sé. La critica va a un sistema oligopolistico, concentrato, clanico, in cui il modello della donna stupenda che canta sulla cassa dritta funziona, garantisce tot copie vendute e la felicità di molte radio. Sono brani di consumo, orecchiabili, come il panino del fast food: destinati a essere ingurgitati, poi rapidamente digeriti e dimenticati.

Dunque non la classifica, ma il ruolo preconcetto affibbiato alle donne nella musica esprime patriarcato, questo sì: se sei uomo, non bello, ma creativo, intrigante, intellettualmente interessante, puoi andare a Sanremo con la tua arte. Se sei donna, o sei stupenda e hai fatto alcune hit di successo che garantiscono un certo ritorno, oppure l’imbuto da superare per salire quel palco a oggi è ancora troppo, troppo stretto. E non è giusto. 

Dunque, se ci aspettavamo qualcosa di meglio da una grande artista come Serena Brancale, per esempio, non possiamo non cogliere molti spunti positivi, anche da questa edizione: al di là del confronto Amadeus-Conti con le fazioni l’un contro l’altra armate, è stata un’edizione di minori parole, con un tabù assordante sulla politica, ma con più centralità restituita alla musica, tutto sommato (e alla pubblicità).

Sanremo 2025: cosa portiamo a casa dal podio (maschile)

In top five ci finiscono Cristicchi, con un brano tradizionale ma ben scritto, e Fedez che pur con sonorità che possono non piacere, parla di sofferenza dal lato maschile. E sul podio, il dato è ancora più clamoroso: oltre al vincitore, la sorpresa Olly, che parla di nostalgia con dolcezza, chiudono il podio a sorpresa Lucio Corsi e Brunori Sas.

Lucio Corsi è secondo con un brano che smonta – a partire dal titolo: Volevo essere un duro – il modello del maschio tossico, dominante, violento, ipercompetitivo e insofferente alle regole, alla costante ricerca della sua autoaffermazione; e lo fa non senza un pizzico di brillante ironia, come in buona parte della sua discografia precedente.

Il cosentino Brunori invece scrive una canzone intimista, che ricorda De Gregori nell’arrangiamento, in cui parla di famiglia, amore e paternità, con un sguardo privato e struggente, disvelando tutto il sentimentalismo degli uomini, troppe volte castrato in una società che li vuole solo abbienti e performativi. Canzoni che boicottano il traguardo dello status, del successo a tutti i costi, come orizzonte di senso della vita.

Dunque bene ha fatto Dario Brunori in conferenza stampa a ribadire che tuttavia nessuna delle canzoni in cima alla classifica propugnano o avallano un modello maschile patriarcale, tutt’altro. E la bellissima notizia è che la gente da casa li ha preferiti a tantissimi altri prodotti più commerciali, dimostrando di saper distinguere ancora l’arte dal commercio, cosa che magari ci si attendeva se mai più dalla critica.

E invece no: questo Sanremo ci restituisce un popolo più attento ai significati di quanto pensassimo.

Se tuttavia quasi esclusivamente agli uomini è concesso di salire sul palco mostrando anche un profilo intellettuale, oltre che una melodia orecchiabile, è naturale che la classifica cristallizzerà questa iniquità. Ma non è la critica, non è il televoto a rappresentare il patriarcato: è il sistema semmai, è l’industria discografica; e le donne, più degli uomini, spesso sono costrette a sottostare alle sue storture, senza l’autentica possibilità di esprimere al meglio la propria arte.

Quindi come direbbe Corrado Guzzanti, “la domanda è malposta”. Non la classifica, non la top 5, rappresentano il patriarcato: il problema è molto, molto più in profondità. E mai giudicare un libro dalla copertina. Né dal ranking.

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