Ripartire da una “Follya”: intervista ad Alessio Bernabei
![Follya](https://www.nemosounds.it/wp-content/uploads/2025/01/Progetto-senza-titolo-2-1024x683.jpg)
Molti se li ricorderanno come Dear Jack, giovane band diventata nota per la partecipazione al talent Amici. Era il 2013 quando questa formazione iniziava a farsi conoscere dal grande pubblico, ed il sogno dei giovanissimi Alessio, Alessandro e Riccardo iniziava a concretizzarsi tra realtà televisive e palcoscenici italiani.
Il sogno, però, ad un certo punto deve scendere a patti con la realtà e con il tempo presente.
Che cosa è cambiato da allora? Nel 2022, dopo un periodo di pausa, la band ritorna sulla scena con un restyling completo di immagine e sound, che mantiene la sua vena pop ma si spoglia di qualche indumento appartenente al “pop-punk” dei primi anni duemila. La nuova identità è quella dei Follya. Quali sono state le ragioni di questa svolta? Ne abbiamo parlato con Alessio Bernabei, frontman del gruppo.
Avete ripreso un percorso musicale che avevate interrotto; in altre interviste avete dichiarato che in questo nuovo inizio è stato complice anche il COVID. Mentalmente quindi come hai vissuto il periodo pandemico? Ha avuto un’influenza positiva, dal punto di vista della produzione artistica?
Il COVID mi ha rubato totalmente creatività e idee… chiuso in un appartamento piccolissimo a Milano, solo per mesi, era un periodo di depressione, barba lunghissima, rapporti sbagliati.
Allo stesso tempo è stato motivo di forte crescita personale, ho letto tantissimi libri in pochi mesi e sono cresciuto moltissimo a livello di consapevolezza e autostima. Quella consapevolezza ha risvegliato la mancanza che provavo per la mia prima band da cui tutto è partito. Per loro è stata la stessa cosa, abbiamo cominciato da videochiamate e il resto lo conoscete… Ci siamo attirati come le calamite.
Quando eravate ancora i “Dear Jack” avevate sicuramente un modo diverso di fare musica. Cosa è cambiato nel vostro modo (e nel tuo personale approccio) di comporre, di scrivere e di vivere la musica? Quanto senti di essere cresciuto come cantautore?
La scrittura si è semplicemente evoluta in linea con la nostra età. A 20 anni scrivi la vita che vivi, che non può essere quella che vivi a 30. Il linguaggio cambia con gli anni, molte volte in peggio perché usi meno l’istinto. Quello che non cambia mai è sempre avere l’esigenza nel dover chiudere canzoni. Ce l’avevo 10 anni fa e ce l’ho ancora ora. Il volersi superare in continuazione. È una sorta di dipendenza (spero sana) avere la gratificazione e amare la sensazione di chiudere un brano nuovo, come se nascessero nuovi figli. Sento di essere migliorato molto come cantautore grazie anche allo scrivere per altri artisti, sia big che emergenti. Fare il camaleonte è molto divertente. Scrivere tutti i giorni ti allena come una palestra.
Ci sono degli insegnamenti che avete tratto dalla vostra precedente esperienza? Errori da non ripetere?
Abbiamo imparato tanto soprattutto dalle esperienze negative. La prima lezione è quella di non fare mai qualcosa che non rispecchia chi sei veramente. Sarai sempre infelice nel farla e non sarai mai credibile, perché non appartiene alla tua natura e la gente se ne accorge. Poi abbiamo capito che la “non trasparenza” può creare grossi incidenti di percorso. E anche che un grande hype può essere distruttivo se non hai lavorato su te stesso e non sei pronto ad accoglierlo.
Il vostro primo album, intitolato proprio “Follya”, rappresenta il vostro nuovo punto d’inizio. Quali sono i temi di cui avete voluto parlare in questo progetto?
L’album Follya ha segnato il nostro ritorno sulla scena musicale, offrendoci l’opportunità di condividere una nuova visione artistica. I temi centrali affrontati in questo lavoro sono l’amore e le ansie di una generazione schiacciata da grandi responsabilità. A un anno dalla sua uscita, posso dire che la vera svolta è arrivata lo scorso novembre con il brano Numero Uno. Questa canzone ci rappresenta profondamente, riflettendo chi siamo oggi come musicisti. È un pezzo ispirato a una persona speciale che ha preso in mano le redini della mia vita, salvandomi in molte occasioni. Tuttavia, ognuno può interpretarla a modo proprio e dedicarla a chi tiene di più.
Qual è stato il pezzo dell’album più complesso da scrivere a livello tematico e perché? Quale, invece, il brano che significa di più per te?
Un tema importante è affrontato sicuramente nel brano Anche Basta, dove parliamo di farmaci antidepressivi, di una generazione spesso portata all’esaurimento da una società che ti vuole sempre al massimo, senza pause, e dalla solitudine che tutto questo può creare. È stato complesso trattare un argomento così delicato, cercando di dare voce a un disagio che molti vivono senza farlo pesare o risultare banali.
Per quanto riguarda il brano più significativo, è davvero difficile scegliere, perché ogni canzone è come un figlio e porta con sé un pezzo di noi. Ma, se proprio dobbiamo fare un nome, direi Morto Per Te: è il brano che ha segnato la ripartenza del nostro progetto e ha un valore speciale anche perché dal vivo ci carica tantissimo e crea un’energia unica con il pubblico.
In questo disco ci sono diversi momenti in cui ritorna il tema dell’ansia, della sensazione di essere in ritardo, di un tempo che ci scorre inesorabilmente via dalle mani. Quest’ansia sembra essere sempre un grande classico della nostra generazione, un tema che ci riguarda tutti e tutte. Ma oltre che nella tua vita personale, credi abbia influenzato anche la tua attività artistica?
La sensazione del tempo che scorre inesorabilmente e dell’ansia che ne deriva è un tema centrale per la nostra generazione. Viviamo in una società che ci spinge a non voler invecchiare, a inseguire continuamente una giovinezza ideale, a essere sempre perfetti. Questo si riflette anche nella musica, dove spesso si esalta l’immagine di artisti giovani e impeccabili sul palco. Tuttavia, ogni età ha le sue bellezze, e credo che riconoscerlo sia fondamentale.
Questo disco è stato uno sfogo, un modo per liberare la rabbia e le tensioni legate a un periodo in cui mi sentivo preso dall’ansia e dall’indecisione, come se fossi sempre sul filo del rasoio, con un futuro incerto davanti. Tutto ciò ha inevitabilmente influenzato la mia arte e i miei testi, perché raccontano ciò che sono e ciò che vivo. Continuo a essere in conflitto con me stesso: da una parte voglio godermi il presente, dall’altra mi preoccupo per una realtà che cambia continuamente e che non posso controllare. Credo che questa tensione sia qualcosa che accomuna molti di noi.
Ma guardiamo al futuro. Avete in uscita anche un nuovo brano “Don’t Cry”, fuori il 24 gennaio. Cosa ci volete raccontare di questo pezzo?
Questo brano nasce da un percorso personale di crescita e consapevolezza. Fin da piccolo ho sempre sentito il dovere di nascondere le emozioni, un atteggiamento che mi sembrava necessario, soprattutto durante il periodo scolastico, perché temevo di essere giudicato o deriso in quanto maschio. Col tempo, però, ho capito che mostrare le proprie fragilità non è un segno di debolezza, ma un atto di coraggio e di forza. Mi sono reso conto che le persone spesso cercano uno specchio negli altri, soprattutto nella musica, qualcosa che li faccia sentire meno soli. In un momento storico in cui si parla tanto di mascolinità tossica, ho pensato fosse importante contribuire ad abbattere questi stereotipi. Questo brano è un invito a essere autentici e a non aver paura di mostrare ciò che si sente davvero.