Come un’unica voce: Intervista a Matteo Costanzo

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E se sentissimo un’unica voce?

Quella di uno sciamano o forse di un uomo sempre in cerca.

Che in genere cuce – da produttore- musica per gli altri, e oggi canta la sua con intimità, mentre in copertina danza davanti a una luna elettrica e intorno a un fuoco: l’ha appena acceso per noi. 

E’ la voce di Matteo Costanzo quella che possiamo ascoltare nel suo ultimo album, Come un’unica voce, uscito il 9 novembre di quest’anno.

Musicista e produttore romano, classe ’92, Matteo firma per T-Recs Music un album che somiglia a un viaggio.

E’ lui a condurci nella sua terra originale. Un magma che scorre per fiumi elettrici e giunge poi ad un nucleo tribale. Sospese, le atmosfere rock, attendono un cambiamento possibile.

E’ una geografia sentimentale quella che distilla la penna di Matteo, in testi che invocano comunione e vicinanza.

C’è la critica al nostro tempo volatile e disperso e poi si affonda infine nella dolcezza di una donna che è, come al solito, baricentro. 

Come un’unica voce è dunque il tentativo di organizzare un’ascesi collettiva navigando sulle leggerezze della musica radiofonica. Una proposta che guarda al pop ma tiene abilmente insieme musica elettronica, folk e accenni rock in un calderone ipnotico che ci darà da ballare.

E questo Matteo sa farlo fino alla fine, sino alla quiete collettiva di Pace chimica.

Il lavoro raffinato di produzione, la grinta dei primi brani e la ricchezza delle suggestioni carnali lasciano spazio a tinte tenui e accennate d’etereo verso le ultime tracce, dove la musica si adagia sulla parola erotica, romantica, più morbida.

Chissà se nei prossimi lavori ci si potrà aspettare un graffio ancor più affilato, che nella variegata proposta musicale si svincoli da una confezione vincente e ben realizzata, per trovare una forma più netta e personale. 

Per fortuna, perché ci si ritrovi, c’è sempre in controluce una nuova consapevolezza intorno alla quale ballare insieme, dopo essere stati condotti dallo sciamano in copertina, dietro una luna elettrica, verso paesaggi ancora inediti.

Atmosfere tribali, carica rock, commistioni di elettronica e folk in una scrittura sognante e sensibile, e poi a tratti più carnale e spericolata. C’è un’innovazione generale rispetto ai tuoi lavori precedenti. Quali nuovi percorsi e collaborazioni creative sono scivolati in quest’ultimo, ricco, lavoro?

C’è sicuramente stata un’evoluzione tecnica nella produzione. Lavoro ogni giorno come produttore e continuare a perfezionarsi è un percorso dovuto oltre che inevitabile. Tuttavia, in questo caso il lavoro più importante è stato fatto sui testi. Ho cercato di scrivere testi che rispettassero la metrica e le melodie “anglofone” delle musiche che ascolto, senza che risultassero troppo ermetici o poeticamente ridondanti, come spesso accade quando si scrive partendo da queste melodie. Mi sono concentrato sull’autenticità, su qualcosa che parlasse davvero di me.

Nel brano Come in un’unica voce che dà il titolo all’album, canti: ’E’ il tempo che corre troppo veloce, respiri corti, ansia di realizzare. C’è sempre un’altra scusa buona per rimandare a quando sarai più libero e meno stanco. E’ tutto un dolore virtuale questo stare da soli’’. Credi che in tempo disperso e multiforme come il nostro, le canzoni possano ancora tenerci uniti e risvegliare una danza collettiva intorno al fuoco come quella che invochi?

Credo che alcune situazioni di collettività, e dunque anche certi concerti, possano schiudere forze misteriose: sanno fermare il tempo, rompere la routine e esorcizzare i nodi del pensiero. Per qualche minuto riusciamo a riconnetterci a quel che abbiamo intorno a noi, soprattutto agli altri.

In un’ intervista passata dichiaravi di sentirti appartenere alla vecchia musica e che quella nuova non parlasse a fondo di te. La pensi ancora così o hai trovato nuova terra fertile nelle proposte contemporanee? C’è un artista con il quale ti piacerebbe in futuro collaborare?  

Non è propriamente così. È vero che la direzione presa dal mercato mainstream si è allontanata dai miei gusti musicali, soprattutto in Italia, ma è altrettanto vero che ci sono progetti musicali molto interessanti. Il nodo del discorso è che spesso è complicato scovarli. Detto questo, mi piacerebbe collaborare con Nayt, ad esempio, e con gruppi con cui sono cresciuto, come i Subsonica.

Un rapporto intimo con la parola e con la persistenza del sentimento è quello che si evince nelle romantiche Parlami, Una nota d’ombra in una melodia o nelle riflessioni di Pace chimica. Hai deciso di andare al cuore del tuo sentire. Quanto hai messo in gioco di te nell’album?

L’album traduce tutti i miei pensieri sul futuro, sulle incertezze, sui momenti di vita vissuta e sulle emozioni provate in questi anni. Niente di artefatto e tutto frutto di intensità provate sulla pelle. Non riesco a mentire quando canto: devo crederci, altrimenti non funziona.

In copertina, la tua ombra nera ci invita a uno slancio primitivo e terreno, mentre dietro di te il biancore di una luna elettrica riconduce al sogno e alla forza dell’etereo. Una composizione fotografica che ricorda la figura dello yin e lo yan: nella tua ricerca musicale, anche da produttore,  hai trovato un tuo equilibrio vincente? 

No non credo che giungerò mai ad un equilibrio definitivo. E va bene così. Direi che il mio bilanciamento somiglia a una tavola da surf che nel suo movimento resiste al caos: a volte imbarca acqua, altre volte si muove sul pelo dell’onda. E forse in sintesi è semplicemente rock.

In lontananza si sente qualcosa: ecco.

Siamo noi che cantiamo in coro, danzando, intorno al fuoco di Matteo Costanzo.

Ci lasciamo guidare verso questa prima, accattivante liberazione.

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